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Product e value placement: quando i brand diventano elementi narrativi

29.03.2024

In principio furono i fratelli Lumière, poi i Ray-Ban in Top Gun e Apple. Il ricorso delle aziende alle inserzioni commerciali è pratica nota. La chiave è quella del rispetto delle narrazioni in cui sono immersi. L’ esempio di Lavazza in Mare Fuori può rappresentare un punto di svolta 

«Lo sai il capolavoro che ho fatto poco tempo fa in Francia? Dopo un'esplosione, a uno che salta in aria, della maglietta cosa gli rimane? La marca, René, la marca!»

Se avete colto la citazione vi siete guadagnati il rispetto incondizionato di chi scrive. Codesta perla arriva da "Boris", quando il direttore della fotografia Glauco cerca di rassicurare il regista René sull’opportunità di inserire nella fiction che stanno girando della pubblicità occulta per un’azienda di merendine. Massima che racconta molto bene come spesso venga inteso il "product placement" nelle serie nostrane e internazionali. Una vetrina scintillante, in cui catapultare quanti più riferimenti possibile al proprio brand, senza troppa attenzione al contesto o al rispetto della narrazione.

Ma andiamo con ordine. La pratica consiste nell’inserire un prodotto brandizzato in spazi non prettamente pubblicitari, soprattutto, appunto, in produzioni televisive o cinematografiche, in video musicali o videogiochi. In realtà non ci sarebbe nulla di male. È una strategia di marketing che, se rispondente a determinate condizioni previste dalla legge, risulta perfettamente legale. Prima di queste è l’avviso esplicito che il contenuto audiovisivo contenga l’inserimento di prodotti a fini commerciali. Diversamente si incappa nella pubblicità occulta, di cui sopra.

tom cruise ray ban

Al di là delle implicazioni legali, il product placement è uno strumento importantissimo per la pubblicità moderna. A differenza degli spot televisivi tradizionali, che a volte rischiano di suscitare emozioni negative nello spettatore - come la sensazione di invadenza o di danno nell’esperienza di fruizione - la forza del product placement è il fondersi perfettamente con il contenuto, facendo sembrare la promozione meno forzata e più naturale.

I film e le serie tv, ad esempio, sono rappresentazioni della realtà. Mentre li guardiamo siamo immersi nella narrazione, trasportati in un mondo che non esiste. Non di rado ci capita di immedesimarci nei personaggi, di sognare di essere loro o di vivere accanto a loro. Ecco che se vediamo un prodotto -  che esiste nel mondo reale - trasportato in un mondo di fantasia, siamo portati a idealizzare il prodotto stesso. Se l’opera riscuote successo, il prodotto finisce per entrare nell'immaginario collettivo, a elevarsi a status symbol. I Ray-Ban Aviator di Tom Cruise in “Top Gun” o l’Aston Martin di James Bond nei vari 007 insegnano.

Un po’ di storia

La pratica ha radici lontane, soprattutto nel cinema. Anzi, per certi aspetti, nasce con il cinema. Il primo esempio di cui si hanno notizie risale infatti al 1896, proprio per per opera dei due che il cinema lo hanno inventato: in "Washing Days in Switzerland” (Les Laveuses, 1896), i fratelli Lumière acconsentirono di mostrare chiaramente nella loro opera il logo di un sapone vegetale, il Sunlight Soap, prodotto dall’azienda britannica Lever Brothers (oggi Unilever, e visto il fatturato, ci sono motivi per credere che abbia funzionato).

vacanze romane vespa

Tuttavia è con l’avvento della televisione e la nascita di Hollywood che l'inserimento di prodotti commerciali è diventato una consuetudine. Intorno alla metà del XX secolo,  i responsabili marketing di tutto il mondo hanno iniziato a comprendere il potenziale di questa strategia, sfruttando il legame emotivo che il pubblico stringeva con le star che dominavano gli schermi televisivi e cinematografici del tempo. Basti pensare alla Ford Mustang Gt con cui Steve McQueen insegue un criminale per tutta San Francisco in "Bullit” (1968) o alla Vespa di Audrey Hepburn e Gregory Peck in "Vacanze Romane” (1953).

Il momento di svolta però arriva nel 1982, con l’uscita nelle sale di  "E.T. l'extra-terrestre". Le vendite delle caramelle Reese's Pieces - con cui il protagonista Elliot attira E.T. in casa sua - aumentarono del 65% in due settimane dall’uscita del cult. E pensare che la prima scelta del regista Steven Spielberg erano le concorrenti M&M’s, ma l’azienda si rifiutò perché voleva prima leggere la sceneggiatura, ipotesi non presa in considerazione dal regista premio Oscar. Con tanti saluti ai direttori commerciali di M&M’s.

Il caso Apple

Il successo clamoroso delle caramelle rese evidente la forza di questo strumento. Ecco dunque comparire i già citati RayBan Aviator di "Top Gun" (1986), o le Nike autoallaccianti usate da Marty McFly in "Ritorno al futuro parte II" (1990),  giusto per citare un paio di esempi. Apple è un altro dei brand che hanno fatto maggior ricorso alle inserzioni commerciali.  Prodotti come iPhone, Macbook o iPod hanno permeato le nostre vite anche grazie all’uso sapiente che l’azienda ha fatto del product placement.  Interessante, infatti, è la scelta dei personaggi a cui l’azienda di Cupertino decide di associarsi. Lisbeth Salander - geniale e creativa hacker di "Millennium - Uomini che odiano le donne" (2011) - utilizza un Macbook per scovare un serial killer, mentre nell’ intricato giallo "Knives Out" (2019), è - spoiler - possibile individuare l’assassino già nella prima parte del film, notando chi tra personaggi non ha mai in mano un iPhone. 


Come spiegato infatti in un’intervista a Vanity Fair dal regista Rian Johnson, Apple proibisce che i villain usino i suoi prodotti. Discorso diverso per l’ episodio “Connection Lost", della sesta stagione della serie cult americana "Modern Family", girato interamente dalla prospettiva dello schermo di un MacBook, con incursioni di iPhone e iPad.  Un modus operandi che non solo ha messo in mostra i prodotti, ma lo ha fatto in un modo che era centrale nella trama dell'episodio, evidenziando l'integrazione del marchio nella vita della famiglia moderna. Non si è trattato propriamente di un product placement, tuttavia. Come ha spiegato il creatore della serie Steve Levitan, lo show non ha ricevuto soldi dall’azienda. «È nato tutto dalla vita quotidiana, e funzionava».

Per non parlare dell’influenza delle inserzioni nel mondo della musica, (ve la ricordate Britney Spears alla ricerca dell’anima gemella sul sito di dating Plenty of Fish nel videoclip di in “Hold It Against Me” (2011) o Lady Gaga che si gusta la Vodka Nemiroff in “Bad Romance”?) o, più recentemente, in quello dei podcast (irrefrenabile la voglia di Crodino degli host di “Cachemire” Edoardo Ferrario e Luca Ravenna mentre chiacchierano attorno al tavolo) videogiochi e persino social media.

La svolta di Lavazza 

Il product placement, insomma, non è nulla di nuovo. Quello che ancora cambia è la modalità di racconto del brand all’interno di un prodotto di intrattenimento. Qualcosa di diverso, in questo senso, si può osservare in "Mare Fuori", la fortunatissima serie Rai in onda dal 2020. Per giustificare la sua presenza nella fiction, Lavazza ha cambiato paradigma: vediamo infatti il brand torinese comparire non per mettere in mostra i suoi prodotti, ma come promotore dei corsi di formazione dedicati al caffè, che i ragazzi possono frequentare per fuggire dalla vita criminale, una volta scontata la pena. In vetrina, insomma, c’è la Fondazione Lavazza, onlus del Gruppo che si occupa di diffondere una sana cultura del caffè e di valorizzare il lavoro delle giovani generazioni. Sono molti i progetti avviati in giro per il mondo, come ad esempio quello rivolto ai richiedenti asilo e ai giovani del quartiere torinese di Aurora, uno dei più popolari della città. 

La messa in onda è stata il primo passo di una strategia di marketing più ampia, che ha portato la partnership Mare Fuori-Fondazione Lavazza anche a Sanremo. Durante l’ultimo Festival è andata infatti in onda una campagna, dal titolo "E se bastasse un caffè per ricominciare", che prosegue nel racconto del lavoro che la Fondazione da anni porta avanti, per regalare una seconda possibilità ai giovani nati in contesti disagiati. Il corto ha come testimonial Massimiliano Caiazzo - nella serie Carmine Di Salvo - il personaggio “positivo” della situazione. È lui che “rovescia” le tazzine, e ci spiega come malgrado la vita possa a volta prendere pieghe negative, non sia mai troppo tardi per ricominciare. 

Quello della collaborazione tra Lavazza e "Mare Fuori" è uno degli esempi più riusciti di product placement negli ultimi anni. È la dimostrazione della necessità di non tradire mai la cifra stilistica del contenuto, di fondere al meglio l’inserzione con la linea narrativa. In un senso più ampio, di rendere arte l’inserzione stessa. Non è un caso che Lavazza abbia di fatto annichilito la concorrenza interna. Gli altri product placement presenti nella serie si notano, ma impallidiscono di fronte alla trovata e al messaggio dell’azienda del caffè. Dimenticheremo domani l’ingombrante presenza della nave Msc Crociere ormeggiata di fronte al carcere minorile, così come dimenticheremo domani i vestiti Ovs e le scarpe di Cult indossati dai personaggi. 

D’altra parte, non possiamo sapere se compreremo più caffè Lavazza. Quel che è certo è che penseremo al brand come a un ente protettivo, impegnato nella società.

Un brand a cui possiamo dare fiducia, che si assume responsabilità che vanno ben oltre il buon caffè che beviamo ogni giorno. Un product placement o, meglio, “un value placement", che può aver dato una sterzata alle inserzioni commerciali di domani. Con buona pace delle aziende ancora bramose di mostrare il proprio logo sulla maglietta di un uomo che salta in aria.