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Matteo Rossi
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Pride Month e comunicazione aziendale: tra inclusione reale e rainbow washing

pride month
26.06.2025

Loghi colorati e slogan inclusivi bastano? Il Pride Month alla prova della coerenza aziendale.

Giuseppe, Gigi e Salvo abitano a Milano e sono amici da sempre. Il 28 giugno parteciperanno al pride della città e per l’occasione hanno deciso di creare un outfit personalizzato. Non è stata un’impresa difficile. Hanno ordinato delle magliette blu su internet con la stampa arcobaleno a cui hanno abbinato calze comprate in un negozio di Corso Buenos Aires. Immancabili le bandiere, ovviamente: una ciascuno, da sventolare lungo il corteo. Hanno anche pensato a una scritta ironica per il cartello che porteranno con sé: qualcosa che faccia sorridere, ma che lasci il segno. Poi potevano scegliere se portarsi una bibita edizione limitata con la scritta Love is Love o altri svariati gadget appositamente messi in vendita per l’evento. Casualità?

Ogni giugno, come per magia, i loghi di centinaia di aziende si tingono dei colori dell’arcobaleno. È il Pride Month, il mese dedicato alla visibilità e ai diritti della comunità LGBTQIA+. Ma accanto ai festeggiamenti e alla crescente sensibilità collettiva, si rinnova puntualmente anche il dibattito: le aziende partecipano per vero impegno o per convenienza commerciale?

Insomma, siamo davanti a una nuova forma di marketing etico o a una strategia di rainbow washing?

Il Pride nasce come manifestazione di protesta e le sue radici affondano nei moti di Stonewall del 1969, quando le persone LGBTQIA+ si ribellarono contro le continue persecuzioni della polizia a New York. Da allora, giugno è diventato il mese simbolico di rivendicazione dei diritti e di visibilità della comunità queer. Eppure, negli ultimi anni, il Pride è diventato anche un’occasione in cui le aziende sfoggiano la loro (presunta) inclusività. Le vetrine si colorano, i social si riempiono di slogan inclusivi, le confezioni dei prodotti si tingono di bandiere arcobaleno e nascono anche prodotti in edizione limitata proprio per partecipare alle parate.

Cos’è il rainbow washing?

Il termine rainbow washing indica l’uso strumentale dei simboli LGBTQIA+ da parte di brand, istituzioni o influencer, al solo scopo di ottenere consenso o profitto, senza un impegno concreto per i diritti delle persone queer.

Molte aziende, ad esempio, cambiano il proprio logo in versione arcobaleno solo nei mercati occidentali, mentre nei paesi dove l’omosessualità è criminalizzata, mantengono un basso profilo o evitano qualsiasi riferimento. Un esempio emblematico? Marchi globali che celebrano il Pride su Instagram negli USA ma non pubblicano nulla in Arabia Saudita o Russia. Questo tipo di incoerenza alimenta un legittimo scetticismo da parte della comunità, che chiede trasparenza e continuità, non spot di un mese all’anno.

Impegno autentico: il programma DEI

D’altra parte, ci sono aziende che lavorano seriamente per costruire ambienti di lavoro inclusivi e rispettosi, andando ben oltre la facciata. Qui entra in gioco un concetto fondamentale: DEI (Diversity, Equity, Inclusion). Si tratta di un insieme di politiche aziendali volte a promuovere la diversità nei team (orientamento, genere, etnia, abilità, età…); garantire equità nei processi decisionali e retributivi; creare ambienti di lavoro realmente inclusivi, dove ogni persona si senta sicura e valorizzata. È in questi casi che la comunicazione assume un altro peso. Non è più uno sforzo di superficie, ma il riflesso di un’identità. Si comunica ciò che si è, non ciò che si vorrebbe apparire. E questo, oggi, fa tutta la differenza. Non è un caso se aziende come Ben & Jerry’s, IKEA o Salesforce sono citate frequentemente come esempi positivi: perché hanno scelto di essere coerenti nel tempo, anche quando non era facile o conveniente.

Al contrario, i casi negativi non mancano: marchi che si appropriano dell’estetica del Pride senza fare nulla per la causa, che sfruttano il lavoro in contesti dove i diritti civili non sono garantiti, che censurano contenuti queer per non compromettere i profitti in determinati mercati o che lanciano prodotti arcobaleno sfruttando lavoro minorile in Paesi dove essere omosessuale è considerato reato. Una guida utile per valutare l’impegno delle aziende è il Corporate Equality Index, elaborato dalla Human Rights Campaign, che valuta centinaia di aziende in base a criteri concreti (benefit, rappresentanza, protezione legale, etc.).

Il consumatore oggi è più consapevole

L'era dei social ha reso tutto più trasparente. Le nuove generazioni — soprattutto Gen Z e Millennials — sono molto attente alla coerenza valoriale dei brand. Uno studio di Edelman (2023) mostra che oltre il 60% dei consumatori si aspetta che le aziende prendano posizione su temi sociali, ma oltre il 70% punisce quelle incoerenti. Questo significa che la comunicazione inclusiva non può essere un trucco pubblicitario: deve partire dall’interno. Un logo arcobaleno senza cultura aziendale inclusiva, oggi, potrebbe essere più dannoso che utile.