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Thank you, Uncle Rube. Rube Goldberg e l’estetica della complessità

macchina di rube goldberg
29.05.2024

Spesso osteggiata, raramente compresa nella sua essenza, la complessità permea la realtà in tutte le sue declinazioni. Analizzare gli elementi che la muovono, in un continuo scambio tra dettaglio e sistema, è la chiave per coglierne tutto il potenziale creativo e narrativo. Ce lo ha insegnato Rube Goldberg con le sue macchine

Nel vortice della creatività ci si trova spesso a un bivio: la complessità è un alleato o un nemico della narrazione? Da quando Mies van der Rohe ci ha insegnato che less is more, intere generazioni di creativi si sono cimentate col problema della riduzione, della semplificazione. Col rischio però di sollevare a ideologia l’assunto, dimenticando il men noto aforisma dell’architetto tedesco: God is in the details. Ovvero, il cammino del creativo è sul costante filo di lama che separa semplicità e complessità. Less OR more. È una sfida che coinvolge non solo gli ingegneri dell'immaginazione ma, in senso più ampio, chiunque abbia a che fare con progetti, organizzazione, flussi, problemi e processi.

Un’infanzia complessa

Credo che il mio cammino su quel filo di lama sia iniziato intorno ai 6 anni. Non troppo espansivo e già propenso all’eccesso di ragionamento, trovai compagnia in un vicino di casa: Heros, di tre o quattro anni più grande. Con lui, futuro ingegnere, elaboravo teorie ardite su dimensioni parallele e assembravo sul pavimento tutti i nostri giochi in scatola, trascorrendo ore nella progettazione di quel che chiamavamo il “gioco totale”: la crasi di tutti i board games, per un un’unica grande esperienza di conquista dell’universo. Non ci riuscimmo mai, ma fu bellissimo.

I miei genitori avrebbero potuto forse cogliere qualche segnale di squilibrio; non se ne avvidero, invece, e continuarono senza indugi a lasciarmi giocare a casa del vicino. Che però, come detto, divenne ingegnere. Non io, umanista predestinato, ero forse avviato a un irrisolvibile attrito tra mania analitico-processuale, viscerale amore per la parola – meglio se esatta – e vorace tensione creativa. Come conciliare queste pulsioni?

pista macchinine

La svolta

La salvezza si affacciò da lì a pochi anni attraverso il cinema. I Goonies, cult del 1985 diretto da Richard Donner e caposaldo della formazione dei nati in quegli anni, racconta di un gruppo di ragazzini intraprendenti alla ricerca del tesoro di Willy l’Orbo. In una scena iniziale compare un curioso meccanismo: qualche corda, una palla da bowling, un secchio, un palloncino, una gallina che fa l’uovo. Tutto messo in improbabile sequenza per raggiungere il banale scopo di aprire un cancello.

Non ne compresi immediatamente la portata, ma ne colsi subito l’ironia e la futilità geniale e ipnotica. Fu il mio primo incontro con una Rube Goldberg machine.

Il primo di molti, perché l’espediente torna in tutta la cinematografia di quegli anni. È al centro di alcune scene di un altro capolavoro del decennio, la trilogia di Ritorno al futuro (1985 / 1989 / 1990, Robert Zemeckis), in cui Emmett Brown, alias “Doc”, scienziato geniale e doverosamente stravagante, ricorre a meccanismi complessi e dall’esito incerto per risolvere situazioni avviate alla catastrofe.

Di più. Negli episodi della saga è l’intera narrazione, tutta in bilico sulla dinamica del paradosso temporale, a giocare con il concatenarsi di micro-accadimenti e sull’incertezza del loro esito.

ritorno al futuro

È del 1985 anche Brazil, secondo film della cosiddetta "trilogia dell'immaginazione" di Terry Gilliam, in cui la narrazione è giocata da un sotteso rapporto tra ironico, distopia angosciosa e meccanica in pieno spirito steampunk (con la comparsa, tra il resto, della posta pneumatica, una sorta di intranet nell’età del vapore). E sono dell’89 Wallace and Gromit, ancora un inventore strampalato e il suo cane, protagonisti in claymation di vicende che ruotano intorno al malfunzionamento di macchinari improbabili, per quanto ispirati a invenzioni reali. 

corsa rotaie
wallace e groomit equilibrio treno
wallace e groomit cambio rotaie

Gli anni ’80 non hanno però l’esclusiva, perché cinquant’anni prima, nel 1936, era Chaplin a mettere in scena la meccanizzazione e a farne, con Tempi moderni, critica profonda attraverso il sorriso. La stessa leggerezza, ma senza denuncia, che ritroviamo dal ’49 in poi in un altro fallimentare inventore di stratagemmi, il coyote Willy (Wile E. Coyote), eternamente impegnato nel vano inseguimento del beffardo Beep Beep.

Negli ultimi decenni, non ha resistito al fascino delle RGm neppure l’advertising. Spicca tra tutti The Cog, il sontuoso spot Honda con cui, nel 2003, durante il Gran Premio di Formula Uno del Brasile, la casa automobilistica lanciava la settima generazione della Accord. Diretto da Antoine Bardou-Jacquet, costato circa un milione di sterline e sette mesi di produzione, è probabilmente lo spot più premiato della storia, ha collezionato milioni di visualizzazioni tra TV, cinema e web e, infine, Honda stessa lo considera tra gli investimenti pubblicitari più efficaci di sempre.

Ma chi è Rube Goldberg?

Colui a cui dobbiamo tutto ciò altri non è che Reuben Garrett Lucius Goldberg (1883-1970), prolifico illustratore statunitense, inventore del professor Lucifer Gorgonzola Butts, che, per raggiungere scopi del tutto ragionevoli – come scacciare mosche o spremere arance – concepisce meccanismi incredibilmente intricati, basati su oggetti d’uso quotidiano ed elementi imprevedibili, come uccelli o gatti.

La copiosa produzione gli è valsa persino l’antonomasia e l’aggettivo rubegoldbergian, riportato dai dizionari con la seguente definizione: «Accomplishing by complex means what seemingly could be done simply» («Raggiungere attraverso mezzi complessi ciò che apparentemente potrebbe essere fatto in modo semplice»).

Una fama negativa e a mio giudizio ingiusta che qui, per gratitudine, voglio riscattare. Perché son molte le lezioni che ci offre il vecchio Rube con le sue machines. Ognuna di esse ha riconciliato la mia creatività con il mio perfezionismo.

disegno rube goldberg machine

Comprendere è amare la complessità
Le Rube Goldberg machines, valido e giocoso espediente per insegnare il funzionamento delle forze e degli elementi base della meccanica, mettono in luce l'importanza di una visione sistemica. La complessità è caratteristica di qualunque realtà: umana, emotiva, fisica, organizzativa, funzionale. La conoscenza profonda appare così come un avanti e indietro dalla visione d’insieme al dettaglio, poi di nuovo su e poi giù: è una fusione per reiterazione dei modelli di progettazione top-down e bottom-up. Comprendere i meccanismi base, in sostanza, ci aiuta a comprendere il tutto. E comprendere il tutto, manco a dirlo, può aiutarci a semplificarlo fino ai suoi fattori essenziali.

Creatività e innovazione
Le RGm mostrano come azioni semplici e ordinarie possano combinarsi in modo sorprendente per svolgere compiti articolati; ci spronano così a ricercare soluzioni originali e fuori dagli schemi per affrontare le sfide quotidiane. Sono una scuola al problem solving creativo, innovativo, caparbio, paziente.

Collaborazione e teamwork
L’efficacia delle macchine di Rube sta nella sincronia di elementi semplici. Allo stesso tempo, la loro progettazione e realizzazione coinvolge spesso molte persone chiamate a lavorare in perfetta sintonia. Chi non ha sperimentato almeno una volta il piacere di un lavoro di squadra ben fatto, lineare, quando tutto fila liscio e ogni cosa è al suo posto? Come recita Gerrison Keillor al termine dello spot Honda: «Isn't it nice when things just work?».

Gioco, umorismo e autoironia
Prima che per un pubblico, le RGm sono uno spasso per chi le progetta e realizza. Ma perché ciò avvenga è necessario vivere la creatività, o la generica ricerca di soluzioni, come gioco. E in tutti i giochi è opportuno riuscire a non prendersi troppo sul serio. Non è sempre facile, ma si può imparare.

Joseph Herscher

Ne è un esempio Joseph Herscher, artista cinetico che sul suo canale youtube Joseph’s Machines ripercorre le orme di Rube Goldberg realizzando dal vero comiche macchine con reazione a catena.

Libertà e fallibilità
Quando Rube inserisce animali nei suoi marchingegni, ci offre in fondo un’altra lezione: uno dei fattori imprescindibili di ogni processo è la libertà di alcune delle sue componenti di non stare al gioco, di non rispondere all’aspettativa. Le sue macchine, a onor del vero, appaiono spesso estremamente fallibili. Ma la possibilità di successo, forse, avanza proprio quando possiamo contemplare l’eventualità del fallimento, del malfunzionamento. Con le parole di Soichiro Honda, «Success is 99 percent failure».

Bellezza: l’estetica della complessità
Goldberg, insieme a W. H. Robinson, è un po’ l’antesignano di Hergé, altro fumettista-ingegnere che darà inizio alla “linea chiara”, tratto distintivo nella storia del fumetto ma anche ispirazione per molta grafica moderna, dalle Macchine di Munari al minimalismo, sino al design grafico contemporaneo. Dentro questo amore per il dettaglio netto, preciso, meccanicamente ineccepibile, questi visionari ci hanno rivelato che la complessità è uno dei meccanismi della bellezza.

Pura narrazione
Infine, la grande lezione che raccoglie tutte le precedenti è che, prima di ogni altra cosa, le RGm rappresentano un modello di narrazione. Sono un modo di raccontare le storie. Ce lo insegna (lo fa sempre) Dante che, con la Divina Commedia, disseziona l’intera realtà e la conoscenza, le riassembla e le rimette in fila in una sequenzialità stringente. Per raccontarci l’universo umano costruisce un ordigno narrativo perfetto. Grazie anche a un meccanismo formale sublime, fatto di risonanze, rimandi fonetici, rime e struttura, recitare il primo verso – entrare con lui nella selva oscura – significa innescare l’ordigno, attraversare in un lampo le combustioni di Inferno e Purgatorio e giungere, con impressionante spinta propulsiva, alla deflagrazione finale: l’esplosione d’aria e luce degli ultimi versi del canto XXXIII del Paradiso:

«l’amor che move il sole e l’altre stelle»

Attraverso il labirinto delle Rube Goldberg machines, ci immergiamo in un mondo in cui ogni gesto e dettaglio si trasformano nel tassello di un racconto intricato, in cui complessità diventa sinonimo di bellezza e conoscenza. È un viaggio che parla alla parte più profonda di ognuno di noi, esplorando il legame indissolubile tra la nostra mente assetata di comprensione e il potere evocativo delle storie.

Un po’ come nella sintesi di Iris Apfel, l’audace designer statunitense recentemente scomparsa, «More is more and less is bore».