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Le rivoluzioni si fanno ancora (anche) sui social

ragazza con il velo che scatta una foto allo specchio rotto
PUBBLICATO
03.02.2023
TEMI

Se nel 2011 la Primavera araba esplose mediaticamente grazie al fu Twitter, oggi X, a distanza di dieci anni le piattaforme online continuano a rappresentare gli strumenti con cui i giovani alimentano sul web le proteste di piazza. La rivolta delle donne iraniane ne è solo un esempio

È il 10 dicembre del 2011 quando Mohamed Bouazizi, fruttivendolo di 26 anni, si dà fuoco nella città tunisina di Sidi Bouzid. Un gesto estremo in segno di protesta contro la polizia che gli aveva sequestrato il suo carretto poiché privo di licenza. La notizia si diffonde soprattutto su Twitter - oltre che in tv - innescando un effetto domino in tutti i Paesi della regione. Partendo dalla Tunisia, la guerra civile travolge l’Egitto, la Libia e la Siria, zona quest’ultima, in cui si combatte ancora oggi. L’eco delle sommosse raggiunge anche l’Europa, dove i militanti bersagliano Francia, Germania e Regno Unito. Spinti dalla rabbia di non aver accesso a nessuna opportunità - e convinti di non aver nulla da perdere - i giovani manifestano contro le disuguaglianze sociali, il deterioramento dell’economia e le élite responsabili e avide, decretando la fine del governo di Zine el-Abidine Ben Ali, secondo Presidente della Repubblica tunisina, durato 23 anni. È l’inizio della cosiddetta “Primavera araba”. 

Il ruolo civico dei social media

I social media hanno effettivamente avuto un ruolo nelle rivolte arabe: sono stati utilizzati come luogo di accesso alle informazioni, di attivismo e di impegno civico. Hanno avuto importanza nel comunicare al mondo cosa stesse succedendo nei paesi scossi dalle ribellioni. È ancora evidente la loro centralità nelle vicende degli scorsi mesi in Iran, utilizzate non solo come megafono della rivoluzione femminile, ma anche come mezzo in cui le donne si espongono in prima persona.

Ottenere un hashtag di tendenza sul fu Twitter ora X è stato uno dei mezzi principali per far sentire la voce delle manifestanti iraniane in tutto il mondo: attrici, imprenditrici, giornaliste, attiviste e femministe, hanno mostrato sui social il loro sostegno lanciando tweet, tagliandosi i capelli e bruciando lo hijab. I contenuti sono diventati un vero e proprio simbolo della lotta collettiva contro un regime che vieta alle donne di decidere della propria vita e del proprio futuro.

Attivismo e social: tra censura e partecipazione

I media sono stati i principali mezzi di diffusione delle proteste, attraverso cui i giovani hanno sfidato la politica. A confermarlo sono i ricercatori del Project on Information Technology and Political Islam dell’Università di Washington, dopo un’analisi attenta di oltre 3 milioni di tweet, ore di video YouTube e il notevole aumento di utenti dell’8% su Facebook in un solo mese dall’inizio delle contestazioni. Mentre ai giornalisti viene vietato l’ingresso nei Paesi in conflitto, i cittadini si trasformano in web reporter dell’accaduto, sostituendosi così ai media tradizionali, dove i contenuti vengono censurati. Ciò ha decretato, insieme ad altri fattori, il passaggio dei social network da semplice mezzo di intrattenimento a vero e proprio mezzo di informazione. Non a caso si parla di “rivoluzione dei social network”, con Facebook e Twitter in prima linea.

Mentre il social fondato da Mark Zuckerberg è stato la piattaforma sulla quale hanno viaggiato i contenuti diffusi soprattutto dai manifestanti - ad oggi la più popolare nei Paesi arabi - Twitter rendeva disponibile gli aggiornamenti in tempo reale. Le nuove dinamiche instauratesi grazie alla diffusione di news attraverso i social hanno permesso a molti di costruirsi un’opinione su una vicenda che altrimenti non avrebbero conosciuto, o avrebbe impiegato troppo tempo prima di essere diffusa sui media tradizionali. La libertà di espressione ha così trovato un solco in cui inserirsi e diffondersi.

Il 14 gennaio, giorno in cui è caduto il Governo Ben Ali, si è verificato un picco del volume dei tweet riguardanti le vicende in corso in Tunisia di gran lunga superiore al traffico totale dei tweet dell’intero Paese, sinonimo della partecipazione di massa alla diffusione delle notizie belliche. In Egitto il traffico dei tweet è arrivato a 80.000 (4 volte il traffico medio del periodo) in corrispondenza della liberazione di Wael Ghonim, fondatore della community Facebook da cui sono partite le proteste virtuali, fino a raggiungere il massimo incremento quando si è diffusa la notizia dell’intenzione, da parte delle autorità egiziane, di lasciare il potere, tra il 10 e l’11 febbraio.

La risposta delle autorità del Cairo non ha tardato ad arrivare: con la disattivazione dei server centrali e l’oscuramento di internet per circa cinque giorni, oltre ad aver provocato perdite economiche importanti, ha rappresentato un ennesimo motivo per scagliarsi in maniera decisa contro il Presidente Mubarak. Per fare fronte alla censura e aggirare i blocchi d’accesso ai server funzionanti sono stati utilizzati vari proxy, software che fungono da interfaccia tra client e server impedendo il riconoscimento del primo da parte del secondo, rendendo possibile l’accesso alla rete. Grazie al supporto delle piattaforme social, si è riusciti a spezzare via i regimi autoritari, dando vita a vere e proprie forme di attivismo virtuali capaci di portare risultati anche sul campo. Essendo privi di una forma di organizzazione gerarchica, Facebook e X sono mezzi che agevolano la creazione di network e l’adesione a una causa: basta essere coinvolti per risultare sostenitori - diversamente da quanto accade per l’attivismo sociale vero e proprio come, ad esempio, il Movimento per i Diritti Civili di Martin Luther King, o i movimenti non violenti anti-Apartheid in Sudafrica.

Diritti delle donne in Iran: le proteste nel mondo

Un altro dato interessante è che la Primavera araba ha aggravato la condizione delle donne dal punto di vista dell’inclusione e dell’uguaglianza. Insieme agli uomini, le donne sono scese in piazza convinte che la lotta per la libertà e la democrazia potesse finalmente aprire loro la strada al riconoscimento dei diritti civili e umani. Ma non è andata così: sono state violentemente invitate a tornare nelle loro case, punite per il loro protagonismo e tutt’oggi si ritrovano a fare i conti con discriminazioni e molestie sessuali.

donna con velo

Name-to ramz mishavad, letteralmente “il tuo nome diventerà chiave”, è l’iscrizione sulla lapide di Masha Amini: ancora una volta la morte di una vittima è diventata il simbolo di un risentimento che ha innescato forti proteste.

È la storia della ventiduenne iraniana arrestata il 13 settembre durante una vacanza a Teheran perché portava il velo in maniera scorretta. Tre giorni dopo è deceduta mentre era sotto la custodia della polizia. L’accaduto ha provocato ribellioni in tutto il mondo con il grido di battaglia “Donna, vita e libertà”. Sui social, per le strade, davanti al Parlamento e nelle Università le donne iraniane hanno manifestato tagliandosi i capelli e dando fuoco ai propri hijab per chiedere la fine della discriminazione, della violenza e del velo obbligatorio.

Tra hashtag e attenzione internazionale

A Teheran è stato lanciato l’hashtag hashtag#MyStealthyFreedom che reclama il diritto di non portare il velo, mentre in Afghanistan per rivendicare il diritto alla propria identità è stata utilizzata l’etichetta hashtag#whereismyname. Ma non solo. Sono stati caricati video sul TikTok in protesta all’arresto e all’uccisione di diverse donne manifestanti, come la sedicenne Sarina Esmailzade, la diciassettenne Nika Shakarami e la ventenne Haith Najafi. Nonostante l’accesso a internet limitato in Iran, Twitter e altri social network hanno assunto un ruolo fondamentale nell’informare il mondo - e gli iraniani stessi - della repressione in atto.

L’hashtag hashtag#مهسا_امینی, hashtag#MahsaAmini in persiano, è stato utilizzato in circa 160 milioni di tweet e il movimento hashtag#hairforfreedom si è diffuso rapidamente soprattutto in Francia, grazie a volti noti del cinema francese come Juliette Binoche, Marion Cotillard, Isabelle Adjani e Isabelle Huppert, che hanno scelto di pubblicare dei video mentre tagliavano ciocche dei propri capelli in segno di solidarietà e vicinanza alle donne iraniane. Gesto replicato anche da Jane Birkin, la cantante britannica, dalla figlia Charlotte Gainsbourg, dall’attrice Charlotte Rampling e da Julie Gayet, la moglie dell’ex presidente francese François Hollande.

Le proteste sono arrivate anche in Italia. Pega, 30enne iraniana originaria di Teheran e studentessa di giurisprudenza nel nostro Paese, ha fatto lo stesso davanti al Campidoglio gridando:

«Vogliamo un cambiamento reale, vogliamo una democrazia reale in cui poter scegliere e dove poter avere il diritto di manifestare. Oggi in Iran questo non è possibile. Ma noi dobbiamo combattere assieme contro l’oscurità.»

I social network si sono dimostrati, ancora una volta, lo strumento per dare voce e forza alle proteste: hanno dato vita a mobilitazioni globali che hanno permesso alle popolazioni di scoprire quanto numerosi fossero i partecipanti. Una presa di consapevolezza capace di generare un coraggio unico. Resta da chiedersi se le piattaforme, con il passare del tempo, riusciranno ad alterare il modo con cui i governi si comportano con i propri cittadini? Riusciranno le donne a ottenere i propri diritti grazie anche all’interazione costante?

Nel frattempo Amnesty International ha rilanciato la richiesta di abolire la legge che obbliga le donne a indossare il velo. In linea con l’affermazione degli esperti delle Nazioni Unite, l'organizzazione ribadisce che “l'Iran deve abrogare tutte le leggi e le politiche che discriminano sulla base del sesso e del genere, coerentemente con gli standard internazionali sui diritti umani". Questo per Mahsa Amini e molte altre donne che hanno pagato il prezzo più alto di tutti pur di difendere la propria e l’altrui libertà.