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Giulio Rossi
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La censura ai tempi dell’algoritmo social

statua mano orecchio
08.08.2024

I social, da spazio nato per essere libero e creativo, troppo spesso finiscono per essere il festival della censura preventiva. Ecco i motivi per i quali comunicare attraverso piattaforme proprietarie non è un passo indietro, ma anzi la rivendicazione del diritto alla libertà, la difesa della propria autenticità. 

Mi è da poco capitato di ricondividere, tramite una storia Instagram, un post di una pagina social, “Cantautoresimo”, che aveva pubblicato sul proprio profilo un breve discorso di Fabrizio De André, durante uno dei suoi ultimi concerti. Si trattava della presentazione del brano Khorakhané (A forza di essere vento)”, contenuto nell’ultimo album del cantautore genovese, “Anime salve”: la canzone è un’interpretazione poetica ma storicamente fedele della storia del popolo rom. Nel descriverla e nel parlare dei suoi protagonisti, De André usa la parola “zingari” (cito dal discorso: «Quelli che noi volgarmente chiamiamo zingari»), soffermandosi, per altro, sulla radice etimologica del termine che risale ad Erodoto. 

Bene, qualche ora dopo mi accorgo che la mia storia Instagram era scomparsa e che lo stesso post dal quale l’avevo ricondivisa era stato rimosso dalla pagina perché violava gli standard di Instagram in quanto incitazione all’odio razziale. Chiunque direbbe che non c’è bisogno di conoscere a fondo la visione politico - culturale di De André, né di ascoltare la canzone per capire che l’algoritmo, o chi per lui, abbia preso un clamoroso abbaglio; basterebbe ascoltare i pochi minuti del discorso di Faber per accorgersi che, ovviamente, il suo era un intento inclusivo, indulgente, pacificatorio, quasi apologetico nei confronti del popolo rom. Ma evidentemente questa entità metafisica che per comodità chiameremo algoritmo, dalle cui decisioni dipende il futuro dei contenuti che tutti noi pubblichiamo sui social, non ne ha avuto il tempo. 

telo colorato

Questo aneddoto personale mette in luce una contraddizione di fondo che, sono certo, tutti noi viviamo ogni giorno sui social: la censura preventiva dell’algoritmo ai nostri contenuti, anche quando completamente privi di una qualunque ragione per cui la sua mannaia debba abbattersi.

Intendiamoci: qui non vogliamo scadere nella retorica e nella superficialità del «non si può più dire niente» o scomodare frasi in stile «la dittatura del politicamente corretto». Quando serve a impedire che “legioni di imbecilli” (per citare Umberto Eco) offendano e insultino gratuitamente sui social, la censura è necessaria se non addirittura auspicabile.

Ma quando si tratta di una mera esecuzione di freddi calcoli, che non tengono minimamente conto del contesto, allora si rischia di generare risultati paradossali.

Inoltre, è sempre l’algoritmo che decide quali temi, argomenti, format privilegiare e quali no. Ad esempio, negli ultimi anni, soprattutto su Facebook, si è deciso di penalizzare l’argomento politico, considerato troppo divisivo, conflittuale, di fatto mettendo sullo stesso piano qualunque contenuto di questo tipo.

Ed è ancora l’algoritmo che costringe a censurare preventivamente alcune parole, considerate tabù a prescindere dal contesto, se non si vuole incorrere nella sua censura. Anche parole che fanno parte della vita (e magari di qualche storia di vita che si ambisce raccontare) come morte, droga, suicidio, ad esempio, rischiano di essere bandite o molto spesso coperte da un bip o da un asterisco, così come il linguaggio sessualmente esplicito, con il risultato di rendere inefficace, poco autentica la narrazione. Se io decidessi, mettiamo caso, di proporre una lettura di Céline sui social, incontrerei sicuramente qualche problema di censura algoritmica. 

ragazza guarda cellulare

Tutto questo risulta ancora più paradossale, quasi una eterogenesi dei fini, se consideriamo l’intento iniziale dei social network: essere uno spazio di libertà che permettesse di disintermediare rispetto ai media tradizionali.

E invece, ci troviamo nella situazione per cui, un qualunque soggetto che ambisca comunicare, raccontare e raccontarsi, probabilmente potrebbe farlo in modo più libero e autentico attraverso piattaforme proprietarie o addirittura sulla vecchia carta dei giornali. Non perché non esista la censura, ma almeno per sapere da dove arriva e perché arriva. E decidere in autonomia come reagire, potendosi assumere la piena paternità e responsabilità dei contenuti, costruendo un proprio contesto narrativo, senza che nessun algoritmo decida privatamente e preventivamente se sia consentito farlo o meno. Nel mio caso lo decidono editore e direttore: speriamo siano più magnanimi dell’algoritmo.