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Armani senza Armani: una storia di brand identity

Sfilata
Image credit: Giorgio Armani Fall 1986 Ready to Wear ©
26.09.2025

Per la prima volta la Milano Fashion Week si svolge senza Giorgio Armani. L’intera edizione è stata pensata come un grande tributo al suo genio creativo, con installazioni, mostre e una sfilata conclusiva che ne celebra l’eredità stilistica.

A Milano c’è fermento. Alle fermate della metropolitana, nei caffè del centro, davanti agli showroom di via Tortona e in piazza Duomo si incrociano modelle con trolley, truccatori con valigie piene di pennelli e fotografi a caccia dello scatto più bello. Siamo nel bel mezzo della Milano Fashion Week, l’appuntamento che ogni anno richiama addetti ai lavori e appassionati da tutto il mondo. Questa però è un’edizione diversa dalle scorse: l’intera manifestazione è stata dedicata al ricordo di Giorgio Armani, con fotografie e video installazioni che hanno ripercorso la carriera di “Re Giorgio” e una mostra in suo onore alla Pinacoteca di Brera. La kermesse poi chiuderà proprio con la sfilata Giorgio Armani domenica 28 settembre.

Carlo Capasa,

Presidente camera della moda

“Celebriamo la Milano Fashion Week nel segno del ricordo di uno dei suoi fondatori: Giorgio Armani. La sua lezione creativa, imprenditoriale e umana è certamente preziosa nei tempi di trasformazione che la moda sta attraversando, in cui visione, qualità e coerenza rappresentano valori essenziali”.

Ma una volta chiuso l’evento e manifestato il tributo, rimane però una domanda più concreta: quale sarà il futuro del brand Armani senza la guida diretta del suo fondatore?

Siamo abituati a vedere chiudere piccole aziende familiari dopo la morte del proprietario, magari perché i figli o i successori scelgono altre strade. Quando invece si tratta di imperi economici e marchi iconici, la situazione è ben diversa: il rischio non è la fine, ma la sfida di preservare un’identità costruita nel tempo, garantendo coerenza stilistica, valori e riconoscibilità, pur senza la presenza fisica del fondatore. E magari, perché no, nel corso del tempo, avere anche il coraggio di cambiare. E’ qui che scende in campo quella che nel linguaggio del marketing viene definita come brand identity (l’identità aziendale), il cuore invisibile che guida ogni scelta del marchio e ne mantiene viva la voce anche dopo l’addio del fondatore.

Completo nero

I cambi al vertice delle aziende

La storia ci insegna, soprattutto nell’ambito della moda, che una volta morto il proprio fondatore, i marchi del lusso hanno cambiato diversi direttori artistici. E gli esempi sono molteplici. Basti pensare all’addio di Maria Grazia Chiuri avvenuto a maggio di quest’anno dalla maison Dior del gruppo LVMH, succeduto a quello di John Galliano da maison Margiela, di Virginie Viard da Chanel sostituita da Matthieu Blazy, ex direttore creativo di Bottega Veneta. E poi Sabato De Sarno che ha lasciato Gucci e al suo posto è stato nominato Demna, ex direttore di Balenciaga. Infine Versace, con l’uscita di scena di Donatella Versace che ha lasciato il posto a Dario Vitale. Tutti passaggi di testimone che dimostrano quanto sia cruciale il ruolo del direttore artistico nella definizione dello stile di un marchio e quanto sia delicata la transizione quando si tratta di brand iconici:

ogni nuova leadership deve trovare l’equilibrio tra innovazione e fedeltà ai valori storici della maison.

I rischi della personalizzazione

Dalla fine degli anni Novanta ad oggi, causa anche l’avvento dei social network, stiamo assistendo a molti esempi di personalizzazione. Lo vediamo costantemente in politica, dove i candidati puntano tutto sulla propria sfera personale per veicolare un messaggio che possa raggiungere un’audience sempre più grande. E lo vediamo anche nel mondo imprenditoriale. Sono una miriade i brand che hanno creato il loro business basandosi sulle capacità comunicative del proprio fondatore che si trasforma in un vero testimonial. Anzi, spesso riesce a raggiungere una maggiore notorietà rispetto al brand. Basta farsi un giro su Instagram e paragonare i follower del profilo privato di Chiara Ferragni a quello di Chiara Ferragni brand per capire la differenza: 28,2 milioni contro i 1,5 milioni.

Pantaloni impermeabili

Ma quali sono i rischi di questa eccessiva personalizzazione? Dal punto di vista della comunicazione e del marketing, quando un brand è troppo legato alla figura del fondatore, ogni passo falso della persona rischia di riverberarsi direttamente sul marchio, influenzando la reputazione e, nei casi peggiori, il fatturato.

Un tweet, una dichiarazione o anche solo una percezione negativa possono compromettere anni di costruzione della brand identity. Quando il fondatore non c’è più, il rischio si sposta anche sul piano della fedeltà dei consumatori: senza la presenza carismatica che incarnava l’essenza del marchio, le persone potrebbero disaffezionarsi, reinterpretando il brand secondo criteri diversi da quelli originari. In questo contesto, diventa fondamentale trasferire la personalità del fondatore nel brand stesso, attraverso scelte di comunicazione, storytelling e coerenza visiva che permettano al marchio di continuare a parlare con la stessa voce, pur in assenza della sua figura fisica.

Il caso di Giorgio Armani non può certo essere accomunato a un fenomeno nato attraverso i social, ma per decenni, il fondatore è stato il volto e l’anima del suo brand: la sua estetica, le sue scelte sartoriali e il suo stile hanno definito l’immagine globale della maison. Ora, senza la sua presenza, la sfida è rendere questa identità autonoma e riconoscibile, affidandosi a direttori creativi e collaboratori che sappiano interpretare la visione originaria e trasmetterla agli appassionati del marchio, preservandone la coerenza e al tempo stesso aprendo spazi per l’innovazione.