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“Da quando i Cinepanettoni non ci sono più… non è più Natale”

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19.12.2025

Parafrasando Cremonini, analizziamo il cinepanettone come rito collettivo, maschera antica e lezione inattesa per la comunicazione d’impresa: fenomenologia di un tempo andato, eppure sempre attuale.

C’è un momento dell’anno in cui il tempo decide di smettere di essere lineare, si curva e torna a caricarsi di nuovi-antichi significati. Dicembre non è solo la fine di qualcosa: è una soglia, un ritorno, un rituale che si ripete uguale e diverso ogni volta. Per oltre trent’anni (dal mitico capostipite Vacanze di Natale, 1983) nel cinema italiano, quel rito ha avuto una forma precisa, riconoscibile, quasi inevitabile: il cinepanettone. Un appuntamento fisso, discusso, spesso deriso, eppure puntualmente atteso, capace di occupare uno spazio simbolico molto più ampio di quello di una semplice uscita in sala.

Non è un caso che questo tema torni oggi, proprio mentre il Natale si avvicina e sbarca in libreria il nuovo lavoro di Giovanni Floris: Asini che volano. Elogio degli italiani tra cinema e realtà; una sorta di “teorema del cinepanettone”, il libro non vuole essere un’operazione nostalgia né un tentativo di riabilitazione forzata. È piuttosto un esercizio di distanza critica: Floris usa il cinepanettone come lente per osservare l’Italia, i suoi vizi ricorrenti, le sue ossessioni, il modo in cui il Paese ha raccontato se stesso - e continua a farlo - attraverso la risata. Il “teorema” non è una formula matematica, ma un’ipotesi culturale: che dietro a quei film seriali, apparentemente leggeri e intercambiabili, si nasconda una grammatica precisa del consenso, dell’identificazione, del successo popolare.

Sotto questa luce, i cinepanettoni smettono di essere solo un genere cinematografico e rivelano la loro vera natura: un dispositivo culturale. Un format che ha attraversato governi, stagioni economiche, trasformazioni sociali, mantenendo intatta la propria funzione. Cambiavano i titoli, le ambientazioni, i bersagli satirici; restava immutato il patto con il pubblico. Raccontare il presente travestendolo da farsa.

Boldi e De Sica

Il cinepanettone non inventa nulla. Si inserisce in una tradizione antichissima. Aristofane, nella Grecia classica, metteva in scena il potere, la guerra, il sesso, il denaro, usando la risata come strumento politico. Plauto, a Roma, costruiva maschere riconoscibilissime: il fanfarone, il parassita, il servo scaltro, il padre ridicolo. Personaggi che non avevano bisogno di spiegazioni, perché il pubblico li conosceva già. Il cinepanettone fa esattamente questo: aggiorna le maschere e le cala nel presente.

C’è il ricco che ostenta e teme di perdere tutto. Il provinciale che sogna il riscatto e inciampa nella propria goffaggine. Il maschio che confonde potere e desiderio. La famiglia come campo di battaglia permanente. La vacanza come palcoscenico in cui le identità si sfilacciano. Non è realismo: è iperbole. Ma come in ogni grande commedia, l’esagerazione serve a rendere visibile ciò che normalmente resta sotto traccia.

Per questo il cinepanettone ha funzionato così a lungo. Perché non chiedeva di essere amato, ma riconosciuto. Era uno specchio deformante, spesso sgradevole, che restituiva al pubblico un’immagine familiare. Volgare, certo. Ripetitivo, spesso. Ma anche straordinariamente coerente nel suo patto con lo spettatore: non promettere qualità, ma appartenenza. Ed è qui che il fenomeno diventa interessante anche per chi si occupa di comunicazione d’impresa. Il cinepanettone ha costruito un brand prima ancora che un genere. Un’identità forte, con codici chiari, aspettative precise, un timing perfetto. Nessuna sorpresa vera, e proprio per questo una fidelizzazione fortissima. Ogni film era diverso, ma uguale. Come ogni Natale.

In un’epoca ossessionata dall’innovazione continua, il cinepanettone insegna il valore della ritualità. La forza della ripetizione. L’importanza di parlare a una comunità senza voler piacere a tutti. Ha accettato di essere divisivo e in questo ha costruito identità. Non ha mai cercato legittimazione critica immediata, sapendo che il tempo avrebbe fatto il suo lavoro — come è accaduto a molte maschere della commedia italiana, da Totò a Fantozzi, inizialmente liquidate con sufficienza.

Oggi possiamo sorridere di quei film, prenderne le distanze, criticarne i limiti. Ma sarebbe miope non riconoscere che per trent’anni hanno intercettato un bisogno profondo: quello di ridere di noi stessi senza filtri, almeno una volta all’anno. E forse è proprio questo che il cinepanettone continua a insegnare: che la comunicazione più efficace non è sempre quella che eleva, ma quella che riconosce. Anche quando lo fa con una risata sguaiata, seduti a tavola, a pochi giorni da Natale.