Niente regole, solo istinto creativo. Le fanzine al servizio dei brand?
In origine strettamente legate al mondo delle controculture, con il tempo le fanzine hanno assunto nuove forme e linguaggi. Con un insospettabile legame con il digitale. Ne abbiamo parlato con Francesco Ciaponi, autore di “Fanzine culture. Ciò che viviamo in rete era già nella carta”.
Francesco Ciaponi è uno dei massimi esperti di fanzine ed editoria indipendente del nostro Paese. Professore di Storia della Stampa e dell’Editoria presso l'Accademia di Belle Arti di Brera, LABA di Rimini e Istituto Modartech, dirige il magazine Contesto, rivista di editoria indipendente e cultura del testo.
Da qualche settimana è uscito il suo nuovo libro dal titolo “Fanzine culture. Ciò che viviamo in rete era già nella carta”. Ne abbiamo parlato con lui, del media, delle sue caratteristiche e di come possano interagire con un racconto di brand.
BEA - Ciao Francesco, partiamo dall’idea di scrivere un libro sulle fanzine. Com’è nata, come si è sviluppata?
«Insegnando ormai da una decina d’anni “Storia dell’editoria” all’Accademia delle Belle Arti di Brera, nel tempo mi è capitato di inserire nel programma parti che provenivano dal mondo indipendente, di cui la fanzine rappresenta l’argomento più “estremo”. Oggi il corso è completamente su questo tipo di argomenti.
E devo dire che quello che vedo fra i ragazzi un po' mi dà ragione. È incredibile come, all’inizio dell’anno, nessun ventenne tra i circa 100 iscritti all'Accademia di Belle Arti sappia cos’è una fanzine. Questa presa di coscienza da un lato mi abbatte interiormente, dall’altro però apre a tutta una serie di spazi di manovra. Infatti, quando ci troviamo ad approfondire questi argomenti i ragazzi si illuminano come non mai, perché scoprono un mondo intero.
La fanzine, infatti, è l’unico media - così l’ho definito nel testo - dove non esiste una regola. Se non quella che chi decide di realizzare una fanzine si auto impone; questo aspetto è molto radicale. Se ci pensiamo bene è difficile trovare lavori o progetti, sia scolastici che lavorativi, in cui non esiste alcuna regola».
E i ragazzi come rispondono all'assenza di regole?
«Beh, all’inizio con una difficoltà incredibile. È uno spazio in cui nessuno di noi è abituato a muoversi. Così partono molto tranquilli, poi quando capiscono che davvero non hanno riferimenti scatta il delirio, esplodono di creatività. Da un lato abbiamo questo aspetto legato alla storia delle fanzine e alla sua componente radicale e dirompente, mentre nella seconda parte del libro ho raccontato del rapporto con il digitale, di come questa mancanza di regole sia unica anche rispetto al mondo del web.
Queste due parti sono consequenziali nel libro. Una prima parte maggiormente storiografica in cui cerco di delineare un po’ la storia del fenomeno, partendo dal presupposto che in Italia non c’era grande materiale che ne raccontava l’evoluzione, e una seconda in cui mi avventuro un po’ in questa tesi che, come dice il sottotitolo del libro, «Ciò che viviamo in rete era già nella carta». Ciò che oggi creiamo e facciamo nel digitale era già spesso presente nelle dinamiche mediatiche dello strumento “zine”. Da qui cerco di fare una serie di esempi».
Le fanzine nascono un po’ come espressione delle controculture, come veicoli che associano idee e persone all’interno di “nicchie” fuori dai sistemi di potere. Come può un medium con queste caratteristiche spostarsi sul digitale senza perdere di autenticità?
«Sicuramente il rapporto e la contrapposizione sta tra carta e digitale, analogico e piattaforme, è tra questi due supporti e nel loro rapporto dialettico che si instaura un legame tutto particolare. Però è interessante notare come accanto alle differenze possa emergere anche una certa continuità tra quanto accadeva offline e quando accade online. Le prime fanzine, ad esempio, venivano spedite a un elenco di indirizzi postali, ognuno riceveva un contenuto identico su richiesta dell’utente finale perché appassionato a un dato argomento. Si tratta di un processo estremamente simile a quello delle moderne mailing list e dell’invio delle newsletter.
Questo è solo un fenomeno, ma ce ne sono altri. Pensiamo all’idea del meme, assimilabile agli adesivi che un tempo imperversavano ovunque sulle pareti, oppure i murales. Quello che mi piace, che mi stuzzica è sempre andare a vedere quello che per noi oggi è normale se aveva degli antenati nelle fanzine, e devo dire che ne ho trovati molti. Nel libro cerco di utilizzare più esempi e vari elementi per evidenziare questo grado di parentela».
C’è quindi un confine sottilissimo sotto molti aspetti, ma quello che rimane centrale pare essere proprio l’assenza di regole. È qualcosa che ha a che fare da vicino con la libertà…
«Ovviamente anche questo aspetto rientra nella discussione relativa alle fanzine digitali e quelle fisiche. Chi preferisce il digitale vede delle possibilità molto più ampie rispetto al passato, ma c’è comunque un senso di limitatezza. Nel tempo è cresciuta la capacità interattiva delle stesse. E il termine interattività è fondamentale, da sempre il ruolo del lettore è centrale. Il suo divenire parte del progetto, fare qualcosa, sentirsi chiamato in causa. Con il digitale queste possibilità esplodono e sembrerebbe una gara impari. Però per me la fanzine è un qualcosa che deve essere toccato. Si tratta di un mio gusto personale ma se non la tocco, non la sfoglio o non posso girarla tra le mani, per me se non c’è più tutto questo rischiamo si perda gran parte del suo essere interessante».
Questo è un altro tema. Facciamo molta più fatica a sentire come nostro qualcosa che non possediamo. Oggi l’elemento fisico è diventato esclusivo, mentre il digitale è diventato “popolare”. Come si interseca questo aspetto con quello che fai?
«Questo ragionamento sulle fanzine come mezzo di comunicazione che appare elitario è qualcosa che ritrovo molto nel fenomeno dei magazine indipendenti come “Indie”, “Extra Extra” portato avanti in Italia da realtà quali “Frab's” o “Edicola 518”, quel contesto lì molto vivo e attivo, più strettamente cartaceo, vive ormai un certo feticismo dell’oggetto, arrivato a essere quasi più importante dei contenuti. Il tema dell’elitarismo anche nelle zine è presente. Prendiamo per esempio Ossì, la fanzine erotica stampata in alcuni numeri in risograph, meravigliosa, estremamente curata. Per chi come me studia l’editoria indipendente da sempre, spesso è destabilizzante. Oggi sono definite "indipendenti" cose che qualche anno fa non lo erano affatto, quindi forse va proprio riletto l’oggetto “zine” secondo questa premessa».
«Negli anni ‘70, quando venivano realizzate le riviste underground, i criteri di base erano arrivare a più persone possibili nella maniera più semplice e veloce, quindi oggi tutte quelle fanzine sarebbero online. Mentre spesso oggi usiamo la carta perché è cambiato l’obiettivo: puntiamo a raggiungere dei target sempre più precisi e detagliati, con confini netti. “Fidelizzati”, direbbe qualcuno».
Proprio il legame con la controcultura è un altro degli aspetti chiave. Oggi sembra che anche i movimenti meno mainstream abbiano difficoltà a rimanere “puri”. Questo non rischia di far perdere l’essenza o depotenziare il messaggio delle fanzine?
«Sicuramente il tema di snaturare l’essenza non dico ribelle, perché non tutte le fanzine lo sono, ma comunque anarchica esiste. Se realizzi una fanzine lo fai per dare qualcosa agli altri, poi se sei bravo e questi “altri” diventano 8 milioni di persone, di sicuro non è una colpa. Certo, esistono le fanzine che finiscono per essere usate come house organ o in alcuni casi come “zine” allegate al prodotto. Ho fatto da relatore di tesi ad una studentessa che è entrata in contatto con Tacchettee (un brand specializzato in abbigliamento nostalgico sportivo, ndr) e due volte l’anno produce per loro una “zine” dove non parla di prodotti ma di temi relativi al mondo grafico calcistico degli anni ’90, che viene imbustata insieme ai prodotti. È chiaramente un prodotto molto specifico, old school, volutamente retrò, con fotocopie pinzate e dove lei fa una bella ricerca contenutistica. Lì per esempio l’effetto snaturamento o svuotamento dell’anima anarchica si avverte poco, nel senso che l’approccio è ancora estremamente fresco, si sente che la ragazza è libera di andare dove vuole e fare quello che le pare. Credo sia sempre più un tema di sensibilità, te ne accorgi subito se il linguaggio è calato dall’alto, o in qualche modo imposto, o se il brand vuole utilizzarlo perché ritiene che funzioni nel suo contesto».
«Un bell’esempio di fanzine e rapporto con i brand è quello di Alessandro Michele, anche lui realizzava dei magazine chiamandoli fanzine, perché alla fine ognuno può definirle come meglio crede. Poi si può discutere per molto tempo su questo aspetto, sul fatto che fossero vere e proprie “zine” o meno, ma intanto molte persone che non sapevano di cosa si parlasse grazie a quel lavoro hanno conosciuto il termine stesso di “fanzine”. Visto il contesto avevano sicuramente un altro sapore rispetto al solito ma si torna a un concetto che avevamo già espresso: la fanzine è qualcosa che non si misura nella parte fisica ma nella sensibilità, è l’approccio che fa la differenza tra una fanzine e altri tipi di prodotti. Ma non vuole dire che uno sia migliore di un altro, è solo differente».
Possiamo definire questa ricerca astratta come il tentativo di creare una comunità di persone che si parlano e discutono, si concentrano attorno a un tema o prodotto?
«Io sono del ‘78, però quando ero ragazzo esistevano ancora ed erano diffusi i fan club dei cantanti e degli artisti. Lì si producevano delle pseudo fanzine dove si seguiva la vita dell’artista, e quell’aspetto “fandom” rimane ancora, di discutere con altri della tua stessa passione. Quello che però spesso manca in questi casi è quell’elemento che nel libro ho chiamato “tempo liberato”. Cioè quando ti stacchi dalle “menate” e ti gusti ogni singolo momento che è solo da godere, che nessuno ti ha chiesto. Sei privo di un obiettivo che non sia il tuo star bene.
Si tratta di qualcosa che ci permette di passare un minuto, un giorno o un mese a fare qualunque cosa. Qualcosa su cui nessuno può intervenire e mettere bocca. Qui subentra anche l’aspetto molto individualista delle fanzine, che spesso viene dimenticato.
Poi certamente c’è un aspetto comunitario che è fondamentale ma dobbiamo ricordarci che le fanzine vengono realizzate spesso perché è il singolo a voler comunicare qualcosa. Con una spinta così forte che alle volte è prioritaria anche rispetto al fatto che ci sia o meno qualcuno che voglia leggerla».
Liberandosi dalla schiavitù della produttività…
«Ancora meglio, è una produttività del tutto personale. C’è tutto un filone di studi proveniente dal mondo americano in cui è particolarmente sviluppato, diffuso e considerato come consuetudine, che vede le “zine” come strumento pedagogico utilizzato nelle scuole. Qui le fanzine vengono utilizzate soprattutto nei casi di disagio psicosociale, dal bullismo ai problemi di alimentazione per arrivare alle difficoltà espressive».
«Le “zine” sono considerate un ottimo strumento perché permettono non solo il gusto di “assaggiare” qualcosa che inventi tu, ma anche la possibilità di creare un mondo con cui comunichi cose che con altri linguaggi, soprattutto verbali, non riesci a fare. Un aspetto molto bello».
Quindi il mondo delle fanzine è tutt’altro che ancorato ad ambienti e linguaggi particolari…
No, non lo è. Guardiamo, ad esempio, al tema della “zine” come performance; quindi non come progetto finito ma come costruzione dell’elemento fanzine. Vi faccio un esempio: tra i miei studenti ho avuto una ragazza che è un’assidua frequentatrice di rave. Ha scelto di laurearsi con me proprio con una fanzine sul mondo rave, uno degli ultimi, veri, fenomeni underground rimasti.
Nel caso specifico i contenuti non sempre erano semplici da trovare. Quello che abbiamo pensato, e poi lei ha fatto con grande bravura, è stato seguire tre o quattro rave e andare ogni volta con un generatore, un portatile e una serie di cellulari quasi usa e getta, godersi e vivere il rave in prima persona e, distribuendo questi cellulari, inserire nella fanzine i contenuti generati da persone a caso durante l’evento. Poi impaginava tutto e stampava la sua “zine” per distribuirla prima della fine del rave stesso. Quindi quella fanzine era legata in tempo reale alla storia del rave. Ne segue le tappe per poi scomparire: questo è l’effetto performativo.
Mi sembra che questi aspetti siano molto vicini all’idea di guerrilla marketing che fa parte degli strumenti di comunicazione che hanno affinità con il mondo della fanzine. Io per la mia laurea, ormai molti anni fa, avevo messo delle fotocopiatrici nei bagni degli uomini e delle donne. Chiunque poteva fotocopiarsi addosso, usando il proprio corpo. Dopo una prima settimana di panico, in cui nessuno “si fotocopiava”, capii che bastava metterci qualche fotocopia che facesse da esempio ed allora cominciò un delirio che ha portato a un risultato finale incredibile».
Si apre un mondo di opportunità potenzialmente infinite.
«Io ai ragazzi dico sempre che oggi il problema delle fanzine non è la possibilità fisica della realizzazione ma piuttosto l’idea. Se hai qualcosa di urgente che “deve” uscire, che senti che ti fa stare bene, anche cose odiose come “Mille modi per uccidere l’artista X”, grandi classici che trovo ai miei esami - se hai qualcosa che si muove dentro e nasce dal corpo, come fosse un bisogno fisico, devi farlo. Non ce l’hai? Lascia perdere».
Chiudiamo con una domanda che per noi è centrale: si può fare una fanzine di brand? Appare difficile far convivere questa spinta così umana con le necessità di un marchio.
«In realtà non lo so. Secondo me è una sfida molto divertente, forse più divertente di fare una fanzine sulla serie tv che ti piace. Qui entrano in ballo molte delle cose che abbiamo detto, certo bisogna capire il progetto alla base e con una “zine” di brand cosa vuoi comunicare, quali contenuti immagini. Se bisogna essere più vicini all’house organ è chiaro che la sfida si fa ardua, se invece si vuole creare rumore intorno al brand allora banalmente, ad esempio, si mette la fotocopiatrice per strada e poi si lavora sul risultato finale. Ovviamente dipende da che tipo di obiettivo ci si pone.
Se i contenuti possono essere veramente liberi, con un approccio fanzinaro, allora è un bel progetto. Io mi ci divertirei molto. Questo perché ti porta a una sfida differente, molto più interessante, riuscire a mantenere quell’approccio di cui parlavamo ma in un ambito in cui quella libertà e quella visceralità solitamente sono meno presenti. Non te le aspetti.
Però non lo escluderei, ci siamo detti che una fanzine non ha regole quindi può tranquillamente essere inzuppata di concetti legati al brand».